Signor Presidente della Repubblica,
cari fratelli Vescovi,
illustri Sindaci e Autorità che rappresentate città e territori bagnati dal Mar Mediterraneo,
amiche e amici tutti!
Vi saluto cordialmente, grato a ciascuno di voi per aver accolto l’invito del Cardinal Aveline a partecipare a questi incontri.
Grazie per il vostro lavoro e per le preziose riflessioni che avete condiviso.
Dopo Bari e Firenze, il cammino al servizio dei popoli mediterranei progredisce: anche qui, responsabili ecclesiastici e civili sono insieme non per trattare reciproci interessi, ma animati dal desiderio di prendersi cura dell’uomo; grazie perché lo fate con i giovani, presente e futuro della Chiesa e della società.
La città di Marsiglia è molto antica.
Fondata da navigatori greci venuti dall’Asia Minore, il mito la fa risalire alla storia d’amore tra un marinaio emigrato e una principessa nativa.
Fin dalle origini essa presenta un carattere composito e cosmopolita: accoglie le ricchezze del mare e dona una patria a chi non l’ha più.
Marsiglia ci dice che, nonostante le difficoltà, la convivialità è possibile ed è fonte di gioia.
Sulla carta geografica, tra Nizza e Montpellier, sembra quasi disegnare un sorriso; e mi piace pensarla così: Marsiglia è “il sorriso del Mediterraneo”.
Vorrei dunque proporvi alcuni pensieri attorno a tre realtà che caratterizzano Marsiglia: il mare, il porto e il faro.
Sono tre simboli.
1. Il mare.
Una marea di popoli ha fatto di questa città un mosaico di speranza, con la sua grande tradizione multietnica e multiculturale, rappresentata dai più di 60 Consolati presenti sul suo territorio.
Marsiglia è città al tempo stesso plurale e singolare, in quanto è la sua pluralità, frutto di incontro con il mondo, a renderne singolare la storia.
Spesso oggi si sente ripetere che la storia mediterranea sarebbe un intreccio di conflitti tra civiltà, religioni e visioni differenti.
Non ignoriamo i problemi – ce ne sono! –, ma non lasciamoci ingannare: gli scambi intercorsi tra i popoli hanno reso il Mediterraneo culla di civiltà, mare straripante di tesori, al punto che, come scrisse un grande storico francese, esso non è «un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi.
Non un mare, ma una successione di mari»; «da millenni tutto vi confluisce, complicandone e arricchendone la storia» (F.
Braudel, La Méditerranée, Paris 1985, 16).
Il mare nostrum è spazio di incontro: tra le religioni abramitiche; tra il pensiero greco, latino e arabo; tra la scienza, la filosofia e il diritto, e tra molte altre realtà.
Ha veicolato nel mondo l’alto valore dell’essere umano, dotato di libertà, aperto alla verità e bisognoso di salvezza, che vede il mondo come una meraviglia da scoprire e un giardino da abitare, nel segno di un Dio che stringe alleanze con gli uomini.
Un grande sindaco leggeva nel Mediterraneo non una questione conflittuale, ma una risposta di pace, anzi «l’inizio e il fondamento della pace fra tutte le nazioni del mondo» (G.
La Pira, Parole a conclusione del primo Colloquio Mediterraneo, 6 ottobre 1958).
Disse infatti: «La risposta […] è possibile se si considera la comune vocazione storica e per così dire permanente che la Provvidenza ha assegnato nel passato, assegna nel presente e, in un certo senso, assegnerà nell’avvenire ai popoli e alle nazioni che vivono sulle rive di questo misterioso lago di Tiberiade allargato che è il Mediterraneo» (Discorso di apertura del I Colloquio Mediterraneo, 3 ottobre 1958).
Lago di Tiberiade, ovvero Mare di Galilea, un luogo cioè nel quale, ai tempi di Cristo, si concentrava una grande varietà di popolazioni, culti e tradizioni.
Proprio lì, nella «Galilea delle genti» (cfr Mt 4,15) attraversata dalla Via del mare, si svolse la maggior parte della vita pubblica di Gesù.
Un contesto multiforme e per molti versi instabile fu la sede dell’annuncio universale delle Beatitudini, nel nome di un Dio Padre di tutti, che «fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45).
Era anche l’invito ad allargare le frontiere del cuore, superando barriere etniche e culturali.
Ecco allora la risposta che viene dal Mediterraneo: questo perenne mare di Galilea invita a opporre alla divisività dei conflitti la «convivialità delle differenze» (T.
Bello, Benedette inquietudini, Milano 2001, 73).
Il mare nostrum, al crocevia tra Nord e Sud, tra Est e Ovest, concentra le sfide del mondo intero, come testimoniano le sue “cinque rive”, su cui avete riflettuto: Nord Africa, vicino Oriente, Mar Nero-Egeo, Balcani ed Europa latina.
È avamposto di sfide che riguardano tutti: pensiamo a quella climatica, con il Mediterraneo che rappresenta un hotspot dove i cambiamenti si avvertono più rapidamente; quanto è importante custodire la macchia mediterranea, scrigno di biodiversità! Insomma, questo mare, ambiente che offre un approccio unico alla complessità, è “specchio del mondo” e porta in sé una vocazione globale alla fraternità, vocazione unica e unica via per prevenire e superare le conflittualità.
Fratelli e sorelle, nell’odierno mare dei conflitti, siamo qui per valorizzare il contributo del Mediterraneo, perché torni a essere laboratorio di pace.
Perché questa è la vocazione, essere luogo dove Paesi e realtà diverse si incontrino sulla base dell’umanità che tutti condividiamo, non delle ideologie che contrappongono.
Sì, il Mediterraneo esprime un pensiero non uniforme e ideologico, ma poliedrico e aderente alla realtà; un pensiero vitale, aperto e conciliante: un pensiero comunitario, questa è la parola.
Quanto ne abbiamo bisogno nel frangente attuale, dove nazionalismi antiquati e belligeranti vogliono far tramontare il sogno della comunità delle nazioni! Ma – ricordiamolo – con le armi si fa la guerra, non la pace, e con l’avidità di potere sempre si torna al passato, non si costruisce il futuro.
Da dove dunque iniziare per radicare la pace? Sulle rive del Mare di Galilea Gesù cominciò col dare speranza ai poveri, proclamandoli beati: ne ascoltò i bisogni, ne sanò le ferite, proclamò anzitutto a loro il buon annuncio del Regno.
Da lì occorre ripartire, dal grido spesso silenzioso degli ultimi, non dai primi della classe che, pur stando bene, alzano la voce.
Ripartiamo, Chiesa e comunità civile, dall’ascolto dei poveri, che «si abbracciano, non si contano» (P.
Mazzolari, La parola ai poveri, Bologna 2016, 39), perché sono volti, non numeri.
Il cambio di passo delle nostre comunità sta nel trattarli come fratelli di cui conoscere le storie, non come problemi fastidiosi, cacciandoli via, mandandoli a casa; sta nell’accoglierli, non nel nasconderli; nell’integrarli, non nello sgomberarli; nel dar loro dignità.
E Marsiglia, voglio ripeterlo, è la capitale dell’integrazione dei popoli.
Questo è un orgoglio vostro! Oggi il mare della convivenza umana è inquinato dalla precarietà, che ferisce pure la splendida Marsiglia.
E dove c’è precarietà c’è criminalità: dove c’è povertà materiale, educativa, lavorativa, culturale e religiosa, il terreno delle mafie e dei traffici illeciti è spianato.
L’impegno delle sole istituzioni non basta, serve un sussulto di coscienza per dire “no” all’illegalità e “sì” alla solidarietà, che non è una goccia nel mare, ma l’elemento indispensabile per purificarne le acque.
In effetti, il vero male sociale non è tanto la crescita dei problemi, ma la decrescita della cura.
Chi oggi si fa prossimo dei giovani lasciati a sé stessi, facili prede della criminalità e della prostituzione? Chi se ne prende carico? Chi è vicino alle persone schiavizzate da un lavoro che dovrebbe renderle più libere? Chi si prende cura delle famiglie impaurite, timorose del futuro e di mettere al mondo nuove creature? Chi presta ascolto al gemito degli anziani soli che, anziché esser valorizzati, vengono parcheggiati, con la prospettiva falsamente dignitosa di una morte dolce, in realtà più salata delle acque del mare? Chi pensa ai bambini non nati, rifiutati in nome di un falso diritto al progresso, che è invece regresso nei bisogni dell’individuo? Oggi abbiamo il dramma di confondere i bambini con i cagnolini.
Il mio segretario mi diceva che, passando per Piazza San Pietro, aveva visto qualche donna che portava i bambini nella carrozzina… ma non erano bambini, erano cagnolini! Questa confusione ci dice qualcosa di brutto.
Chi guarda con compassione oltre la propria riva per ascoltare le grida di dolore che si levano dal Nord Africa e dal Medio Oriente? Quanta gente vive immersa nelle violenze e patisce situazioni di ingiustizia e di persecuzione! E penso a tanti cristiani, spesso costretti a lasciare le loro terre oppure ad abitarle senza veder riconosciuti i loro diritti, senza godere di piena cittadinanza.
Per favore, impegniamoci perché quanti fanno parte della società possano diventarne cittadini a pieno diritto.
E poi c’è un grido di dolore che più di tutti risuona, e che sta tramutando il mare nostrum in mare mortuum, il Mediterraneo da culla della civiltà a tomba della dignità.
È il grido soffocato dei fratelli e delle sorelle migranti, a cui vorrei dedicare attenzione riflettendo sulla seconda immagine che ci offre Marsiglia, quella del suo porto.
2.
Il porto di Marsiglia è da secoli una porta spalancata sul mare, sulla Francia e sull’Europa.
Da qui molti sono partiti per trovare lavoro e futuro all’estero, e da qui tanti hanno varcato la porta del continente con bagagli carichi di speranza.
Marsiglia ha un grande porto ed è una grande porta, che non può essere chiusa.
Vari porti mediterranei, invece, si sono chiusi.
E due parole sono risuonate, alimentando le paure della gente: “invasione” ed “emergenza”.
E si chiudono i porti.
Ma chi rischia la vita in mare non invade, cerca accoglienza, cerca vita.
Quanto all’emergenza, il fenomeno migratorio non è tanto un’urgenza momentanea, sempre buona per far divampare propagande allarmiste, ma un dato di fatto dei nostri tempi, un processo che coinvolge attorno al Mediterraneo tre continenti e che va governato con sapiente lungimiranza: con una responsabilità europea in grado di fronteggiare le obiettive difficoltà.
Sto guardando, qui, in questa mappa, i porti privilegiati per i migranti: Cipro, la Grecia, Malta, Italia e Spagna… Sono affacciati sul Mediterraneo e ricevono i migranti.
Il mare nostrum grida giustizia, con le sue sponde che da un lato trasudano opulenza, consumismo e spreco, mentre dall’altro vi sono povertà e precarietà.
Anche qui il Mediterraneo rispecchia il mondo, con il Sud che si volge al Nord, con tanti Paesi in via di sviluppo, afflitti da instabilità, regimi, guerre e desertificazione, che guardano a quelli benestanti, in un mondo globalizzato nel quale tutti siamo connessi ma i divari non sono mai stati così profondi.
Eppure, questa situazione non è una novità degli ultimi anni, e non è questo Papa venuto dall’altra parte del mondo il primo ad avvertirla con urgenza e preoccupazione.
La Chiesa ne parla con toni accorati da più di cinquant’anni.
Si era da poco concluso il Concilio Vaticano II e San Paolo VI, nell’Enciclica Populorum progressio, scrisse: «I popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza.
La chiesa trasale davanti a questo grido d’angoscia e chiama ognuno a rispondere con amore al proprio fratello» (n.
3).
Papa Montini enumerò “tre doveri” delle nazioni più sviluppate, «radicati nella fraternità umana e soprannaturale»: «dovere di solidarietà, cioè l’aiuto che le nazioni ricche devono prestare ai Paesi in via di sviluppo; dovere di giustizia sociale, cioè il ricomponimento in termini più corretti delle relazioni commerciali difettose tra popoli forti e popoli deboli; dovere di carità universale, cioè la promozione di un mondo più umano per tutti, un mondo nel quale tutti abbiano qualcosa da dare e da ricevere, senza che il progresso degli uni costituisca un ostacolo allo sviluppo degli altri» (n.
44).
Alla luce del Vangelo e di queste considerazioni, Paolo VI, nel 1967, sottolineò il «dovere dell’accoglienza», sul quale, scrisse, «non insisteremo mai abbastanza» (n.
67).
A questo, quindici anni prima, aveva incoraggiato Pio XII, scrivendo che «la Famiglia di Nazaret in esilio, Gesù, Maria e Giuseppe emigranti in Egitto […] sono il modello, l’esempio ed il sostegno di tutti gli emigranti e pellegrini di ogni età e di ogni paese, di tutti i profughi di qualsiasi condizione che, incalzati dalla persecuzione o dal bisogno, si vedono costretti ad abbandonare la patria, i cari parenti, […] e a recarsi in terra straniera» (Cost.
Ap.
Exsul Familia de spirituali emigrantium cura, 1° agosto 1952).
Certo, sono sotto gli occhi di tutti le difficoltà nell’accogliere. I migranti vanno accolti, protetti o accompagnati, promossi e integrati.
Se non si arriva fino alla fine, il migrante finisce nell’orbita della società.
Accolto, accompagnato, promosso e integrato: questo è lo stile.
È vero che non è facile avere questo stile o integrare persone non attese, però il criterio principale non può essere il mantenimento del proprio benessere, bensì la salvaguardia della dignità umana.
Coloro che si rifugiano da noi non vanno visti come un peso da portare: se li consideriamo fratelli, ci appariranno soprattutto come doni.
Domani si celebrerà la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato.
Lasciamoci toccare dalla storia di tanti nostri fratelli e sorelle in difficoltà, che hanno il diritto sia di emigrare sia di non emigrare, e non chiudiamoci nell’indifferenza.
La storia ci interpella a un sussulto di coscienza per prevenire il naufragio di civiltà.
Il futuro, infatti, non sarà nella chiusura, che è un ritorno al passato, un’inversione di marcia nel cammino della storia.
Contro la terribile piaga dello sfruttamento di esseri umani, la soluzione non è respingere, ma assicurare, secondo le possibilità di ciascuno, un ampio numero di ingressi legali e regolari, sostenibili grazie a un’accoglienza equa da parte del continente europeo, nel contesto di una collaborazione con i Paesi d’origine.
Dire “basta”, invece, è chiudere gli occhi; tentare ora di “salvare sé stessi” si tramuterà in tragedia domani, quando le future generazioni ci ringrazieranno se avremo saputo creare le condizioni per un’imprescindibile integrazione, mentre ci incolperanno se avremo favorito soltanto sterili assimilazioni.
L’integrazione, anche dei migranti, è faticosa, ma lungimirante: prepara il futuro che, volenti o nolenti, sarà insieme o non sarà; l’assimilazione, che non tiene conto delle differenze e resta rigida nei propri paradigmi, fa invece prevalere l’idea sulla realtà e compromette l’avvenire, aumentando le distanze e provocando la ghettizzazione, che fa divampare ostilità e insofferenze.
Abbiamo bisogno di fraternità come del pane.
La stessa parola “fratello”, nella sua derivazione indoeuropea, rivela una radice legata alla nutrizione e al sostentamento.
Sosterremo noi stessi solo nutrendo di speranza i più deboli, accogliendoli come fratelli.
«Non dimenticate l’ospitalità» (Eb 13,2), ci dice la Scrittura.
E nell’Antico Testamento si ripete: la vedova, l’orfano e lo straniero.
I tre doveri della carità: assistere la vedova, assistere l’orfano e assistere lo straniero, il migrante.
A tale proposito, il porto di Marsiglia è anche una “porta di fede”.
Secondo la tradizione, qui approdarono i Santi Marta, Maria e Lazzaro, che seminarono il Vangelo in queste terre.
La fede viene dal mare, come rievoca la suggestiva tradizione marsigliese della Candelora con la processione marittima.
Lazzaro, nel Vangelo, è l’amico di Gesù, ma è anche il nome del protagonista di una sua parabola attualissima, la quale apre gli occhi sulla disuguaglianza che corrode la fraternità e ci parla della predilezione del Signore per i poveri.
Ebbene, noi cristiani, che crediamo nel Dio fatto uomo, nell’unico e inimitabile Uomo che sulle rive del Mediterraneo si è detto via, verità e vita (cfr Gv 14,6), non possiamo accettare che le vie dell’incontro siano chiuse.
Non chiudiamo le vie dell’incontro, per favore! Non possiamo accettare che la verità del dio denaro prevalga sulla dignità dell’uomo, che la vita si tramuti in morte! La Chiesa, confessando che Dio in Gesù Cristo «si è unito in certo modo ad ogni uomo» (Gaudium et spes, 22), crede, con San Giovanni Paolo II, che la sua via è l’uomo (cfr Lett.
enc.
Redemptor hominis, 14).
Adora Dio e serve i più fragili, che sono i suoi tesori.
Adorare Dio e servire il prossimo, ecco cosa conta: non la rilevanza sociale o la consistenza numerica, ma la fedeltà al Signore e all’uomo!
Questa è la testimonianza cristiana, e tante volte è pure eroica; penso ad esempio a San Charles de Foucauld, “fratello universale”, ai martiri dell’Algeria, ma anche a tanti operatori di carità di oggi.
In questo stile di vita scandalosamente evangelico, la Chiesa ritrova il porto sicuro a cui attraccare e da cui ripartire per intessere legami con la gente di ogni popolo, ricercando ovunque le tracce dello Spirito e offrendo quanto per grazia ha ricevuto.
Ecco la realtà più pura della Chiesa, ecco – scrisse Bernanos – «la Chiesa dei santi», aggiungendo che «tutto questo grande apparato di saggezza, di forza, di disciplina elastica, di magnificenza e di maestà, non è nulla di per sé, se la carità non lo anima» (Jeanne relapse et sainte, Paris 1994, 74).
Mi piace esaltare questa perspicacia francese, genio credente e creativo, che ha affermato tali verità attraverso una moltitudine di gesti e scritti.
San Cesareo di Arles diceva: «Se hai la carità, hai Dio; e se hai Dio, che cosa ti manca?» (Sermo 22,2).
Pascal riconosceva che «l’unico oggetto della Scrittura è la carità» (Pensieri, n.
301) e che «la verità fuori della carità non è Dio, ma è la sua immagine e un idolo che non bisogna amare, né adorare» (Pensieri, n.
767).
E San Giovanni Cassiano, che qui morì, scrisse che «tutto, anche ciò che si stima utile e necessario, val meno di quel bene che è la pace e la carità» (Conferenze spirituali XVI,6).
È bello dunque che i cristiani non siano secondi a nessuno nella carità; e che il Vangelo della carità sia la magna charta della pastorale.
Non siamo chiamati a rimpiangere i tempi passati o a ridefinire una rilevanza ecclesiale, siamo chiamati alla testimonianza: non a ricamare il Vangelo di parole, ma a dargli carne; non a misurare la visibilità, ma a spenderci nella gratuità, credendo che «la misura di Gesù è l’amore senza misura» (Omelia, 23 febbraio 2020).
San Paolo, l’Apostolo delle genti che trascorse buona parte della vita sulle rotte mediterranee, da un porto all’altro, insegnava che per adempiere la legge di Cristo occorre portare gli uni i pesi degli altri (cfr Gal 6,2).
Cari fratelli Vescovi, non carichiamo di pesi le persone, ma alleviamo le loro fatiche in nome del Vangelo della misericordia, per distribuire con gioia il sollievo di Gesù a un’umanità stanca e ferita.
La Chiesa non sia un insieme di prescrizioni, la Chiesa sia porto di speranza per gli sfiduciati.
Allargate il cuore, per favore! La Chiesa sia porto di ristoro, dove le persone si sentano incoraggiate a prendere il largo nella vita con la forza impareggiabile della gioia di Cristo.
La Chiesa non sia dogana.
Ricordiamo il Signore: tutti, tutti, tutti sono invitati.
3.
E vengo brevemente così all’ultima immagine, quella del faro.
Esso illumina il mare e fa vedere il porto.
Quali scie luminose possono orientare la rotta delle Chiese nel Mediterraneo? Pensando al mare, che unisce tante comunità credenti diverse, credo si possa riflettere su percorsi più sinergici, forse valutando anche l’opportunità di una Conferenza ecclesiale del Mediterraneo, come ha detto il Cardinale [Aveline].
che permetta ulteriori possibilità di scambio e dia maggiore rappresentatività ecclesiale alla regione.
Anche pensando al porto e al tema migratorio, potrebbe essere proficuo lavorare per una pastorale specifica ancora più collegata, così che le Diocesi più esposte possano assicurare migliore assistenza spirituale e umana alle sorelle e ai fratelli che giungono bisognosi.
Il faro, in questo prestigioso palazzo che ne porta il nome, mi fa infine pensare soprattutto ai giovani: sono loro la luce che indica la rotta futura.
Marsiglia è una grande città universitaria, sede di quattro campus; dei circa 35.000 studenti che li frequentano, 5.000 sono stranieri.
Da dove cominciare a tessere i rapporti tra le culture, se non dall’università? Lì i giovani non sono ammaliati dalle seduzioni del potere, ma dal sogno di costruire l’avvenire.
Le università mediterranee siano laboratori di sogni e cantieri di futuro, dove i giovani maturino incontrandosi, conoscendosi e scoprendo culture e contesti vicini e diversi al tempo stesso.
Così si abbattono i pregiudizi, si sanano le ferite e si scongiurano retoriche fondamentaliste.
State attenti alla predica di tanti fondamentalismi che oggi sono alla moda! Giovani ben formati e orientati a fraternizzare potranno aprire porte insperate di dialogo.
Se vogliamo che si dedichino al Vangelo e all’alto servizio della politica, occorre prima di tutto che noi siamo credibili: dimentichi di noi stessi, liberi da autoreferenzialità, dediti a spenderci senza sosta per gli altri.
Ma la sfida prioritaria dell’educazione riguarda ogni età formativa: già da bambini, “mischiandosi” con gli altri, si possono superare tante barriere e preconcetti, sviluppando la propria identità nel contesto di un mutuo arricchimento.
A ciò può ben contribuire la Chiesa, mettendo al servizio le sue reti formative e animando una “creatività della fraternità”.
Fratelli e sorelle, la sfida è anche quella di una teologia mediterranea – la teologia dev’essere radicata nella vita; una teologia da laboratorio non funziona –, che sviluppi un pensiero aderente al reale, “casa” dell’umano e non solo del dato tecnico, in grado di unire le generazioni legando memoria e futuro, e di promuovere con originalità il cammino ecumenico tra i cristiani e il dialogo tra credenti di religioni diverse.
È bello avventurarsi in una ricerca filosofica e teologica che, attingendo alle fonti culturali mediterranee, restituisca speranza all’uomo, mistero di libertà bisognoso di Dio e dell’altro per dare senso alla propria esistenza.
Ed è necessario pure riflettere sul mistero di Dio, che nessuno può pretendere di possedere o padroneggiare, e che anzi va sottratto ad ogni utilizzo violento e strumentale, consci che la confessione della sua grandezza presuppone in noi l’umiltà dei cercatori.
Cari fratelli e sorelle, sono contento di essere qui a Marsiglia! Una volta il Signor Presidente mi ha invitato a visitare la Francia e mi ha detto così: “Ma è importante che venga a Marsiglia!”.
E l’ho fatto.
Vi ringrazio per il vostro paziente ascolto e per il vostro impegno.
Andate avanti, coraggiosi! Siate mare di bene, per far fronte alle povertà di oggi con una sinergia solidale; siate porto accogliente, per abbracciare chi cerca un futuro migliore; siate faro di pace, per fendere, attraverso la cultura dell’incontro, gli abissi tenebrosi della violenza e della guerra.
Grazie tante!
Cari fratelli e sorelle,
grazie per essere qui.
Dinanzi a noi c’è il mare, fonte di vita, ma questo luogo evoca la tragedia dei naufragi, che provocano morte.
Siamo riuniti in memoria di coloro che non ce l’hanno fatta, che non sono stati salvati.
Non abituiamoci a considerare i naufragi come fatti di cronaca e i morti in mare come cifre: no, sono nomi e cognomi, sono volti e storie, sono vite spezzate e sogni infranti.
Penso a tanti fratelli e sorelle annegati nella paura, insieme alle speranze che portavano nel cuore.
Davanti a un simile dramma non servono parole, ma fatti.
Prima ancora, però, serve umanità, serve silenzio, pianto, compassione e preghiera.
Vi invito ora a un momento di silenzio in memoria di questi nostri fratelli e sorelle: lasciamoci toccare dalle loro tragedie.
[momento di silenzio]
Troppe persone, in fuga da conflitti, povertà e calamità ambientali, trovano tra le onde del Mediterraneo il rifiuto definitivo alla loro ricerca di un futuro migliore.
E così questo splendido mare è diventato un enorme cimitero, dove molti fratelli e sorelle sono privati persino del diritto di avere una tomba, e a venire seppellita è solo la dignità umana.
Nel libro-testimonianza “Fratellino”, il protagonista, alla fine del travagliato viaggio che lo porta dalla Repubblica di Guinea all’Europa, afferma: «Quando ti siedi sopra il mare sei a un bivio.
Da una parte la vita, dall’altra la morte.
Lì non ci sono altre uscite» (A.
Arzallus Antia – I.
Balde, Fratellino, Milano 2021, 107).
Amici, anche davanti a noi si pone un bivio: da una parte la fraternità, che feconda di bene la comunità umana; dall’altra l’indifferenza, che insanguina il Mediterraneo.
Ci troviamo di fronte a un bivio di civiltà.
O la cultura dell’umanità e della fratellanza, o la cultura dell’indifferenza: che ognuno si arrangi come può.
Non possiamo rassegnarci a vedere esseri umani trattati come merce di scambio, imprigionati e torturati in modo atroce – lo sappiamo, tante volte, quando li mandiamo via, sono destinati ad essere torturati e imprigionati –; non possiamo più assistere ai drammi dei naufragi, dovuti a traffici odiosi e al fanatismo dell’indifferenza.
L’indifferenza diventa fanatica.
Le persone che rischiano di annegare quando vengono abbandonate sulle onde devono essere soccorse.
È un dovere di umanità, è un dovere di civiltà!
Il Cielo ci benedirà, se in terra e sul mare sapremo prenderci cura dei più deboli, se sapremo superare la paralisi della paura e il disinteresse che condanna a morte con guanti di velluto.
In questo, noi rappresentanti di diverse religioni siamo chiamati a essere di esempio.
Dio, infatti, benedisse il padre Abramo.
Egli fu chiamato a lasciare la sua terra d’origine e «partì senza sapere dove andava» (Eb 11,8).
Ospite e pellegrino in terra straniera, accolse i viandanti che passarono nei pressi della sua tenda (cfr Gen 18): «esule dalla sua patria, privo di casa, fu lui stesso casa e patria di tutti» (S.
Pietro Crisologo, Discorsi, 121).
E «a ricompensa della sua ospitalità, ottenne di avere una discendenza» (S.
Ambrogio di Milano, De officiis, II, 21).
Alle radici dei tre monoteismi mediterranei c’è dunque l’accoglienza, l’amore per lo straniero in nome di Dio.
E questo è vitale se, come il nostro padre Abramo, sogniamo un avvenire prospero.
Non dimentichiamo il ritornello della Bibbia: “l’orfano, la vedova e il migrante, lo straniero”.
Orfano, vedova e straniero: questi sono quelli che Dio ci comanda di custodire.
Noi credenti, dunque, dobbiamo essere esemplari nell’accoglienza reciproca e fraterna.
Spesso non sono facili i rapporti tra i gruppi religiosi, con il tarlo dell’estremismo e la peste ideologica del fondamentalismo che corrodono la vita reale delle comunità.
Ma vorrei, in proposito, dare eco a quanto scrisse un uomo di Dio vissuto non lontano da qui: «Nessuno custodisca nel suo cuore sentimenti di odio per il suo prossimo, ma amore, perché chi odia anche un solo uomo non potrà starsene tranquillo davanti a Dio.
Dio non ascolta la sua preghiera finché custodisce collera nel suo cuore» (S.
Cesario di Arles, Discorsi, XIV, 2).
Oggi pure Marsiglia, caratterizzata da un variegato pluralismo religioso, ha davanti a sé un bivio: incontro o scontro.
E io ringrazio tutti voi, che vi schierate sulla via dell’incontro: grazie per il vostro impegno solidale e concreto per la promozione umana e per l’integrazione.
Marsiglia è un modello di integrazione.
È bello che qui, insieme a diverse realtà che lavorano con i migranti, ci sia il Marseille-Espérance, organismo di dialogo interreligioso che promuove la fraternità e la convivenza pacifica.
Guardiamo ai pionieri e ai testimoni del dialogo, come Jules Isaac, vissuto qua vicino, di cui si è da poco ricordato il 60° anniversario della morte.
Voi siete la Marsiglia del futuro.
Andate avanti senza scoraggiarvi, perché questa città sia per la Francia, per l’Europa e per il mondo un mosaico di speranza.
Come auspicio, vorrei infine citare alcune parole che David Sassoli pronunciò a Bari, in occasione di un precedente incontro sul Mediterraneo: «A Bagdad, nella Casa della Saggezza del Califfo Al Ma’mun, s’incontravano ebrei, cristiani e musulmani a leggere i libri sacri e i filosofi greci.
Oggi sentiamo tutti, credenti e laici, la necessità di riedificare quella casa per continuare insieme a combattere gli idoli, abbattere muri, costruire ponti, dare corpo ad un nuovo umanesimo.
Guardare in profondità il nostro tempo e amarlo anche di più quando è difficile da amare, credo che sia il seme gettato in queste giornate così attente al nostro destino.
Basta avere paura dei problemi che ci sottopone il Mediterraneo! […] Per l’Unione Europea e per tutti noi ne va della nostra sopravvivenza» (Discorso in occasione dell’Incontro di riflessione e spiritualità “Mediterraneo frontiera di pace”, 22 febbraio 2020).
Fratelli, sorelle, affrontiamo uniti i problemi, non facciamo naufragare la speranza, componiamo insieme un mosaico di pace!
Mi fa piacere vedere qui tanti di voi che vanno in mare per salvare, salvare i migranti.
E tante volte vi impediscono di andare, perché – si dice – alla nave manca qualcosa, manca questo, quest’altro… Sono gesti di odio contro il fratello, travestiti da “equilibrio”.
Grazie per tutto quello che fate.
Cari fratelli e sorelle, bon après-midi!
Sono felice di iniziare la mia visita condividendo con voi questo momento di preghiera.
Ringrazio il Cardinale Jean-Marc Aveline per le parole di benvenuto e saluto S.E.
Mons.
Eric de Moulins-Beaufort, i fratelli Vescovi, i Padri Rettori e tutti voi, sacerdoti, diaconi e seminaristi, consacrate e consacrati che operate in questa arcidiocesi con generosità e impegno per edificare una civiltà dell’incontro con Dio e con il prossimo.
Grazie per la vostra presenza e per il vostro servizio, e grazie per le vostre preghiere!
Giunto a Marsiglia, mi sono accodato ai grandi: a Santa Teresa di Gesù Bambino, Charles de Foucauld, Giovanni Paolo II e a tanti altri, che sono venuti pellegrini qui, per affidarsi a Notre Dame de la Garde.
Poniamo sotto il suo manto i frutti degli Incontri del Mediterraneo, insieme alle attese e alle speranze dei vostri cuori.
Nella Lettura biblica, il profeta Sofonia ci ha esortato alla gioia e alla fiducia, ricordando che il Signore nostro Dio non è lontano, è qui, vicino a noi, per salvarci (cfr 3,17).
È un messaggio che rimanda, in un certo senso, alla storia di questa Basilica e a ciò che rappresenta.
Essa, infatti, non fu fondata a ricordo di un miracolo o di un’apparizione particolare, ma semplicemente perché, fin dal XIII secolo, il santo Popolo di Dio ha cercato e trovato qui, sulla collina de La Garde, la presenza del Signore attraverso gli occhi della sua Santa Madre.
Perciò da secoli i Marsigliesi – specialmente coloro che navigano sulle onde del Mediterraneo – vi salgono a pregare.
È stato il Santo Popolo fedele di Dio che ha – uso la parola – “unto” questo santuario, questo luogo di preghiera.
Santo Popolo di Dio che, come dice il Concilio, è infallibile in credendo.
Oggi ancora, per tutti, la Bonne Mère è protagonista di un tenerissimo “incrocio di sguardi”: da una parte quello di Gesù, che lei sempre ci indica e il cui amore riflette nei suoi occhi – il gesto più autentico della Madonna è: “Fate quello che Lui vi dice”, indicare Gesù – dall’altra quelli di tanti uomini e donne di ogni età e condizione, che ella raccoglie e porta a Dio, come abbiamo ricordato all’inizio di questa preghiera, deponendo ai suoi piedi un cero acceso.
Ecco, nel crocevia di popoli che è Marsiglia, è proprio su questo incrocio di sguardi che vorrei riflettere con voi, perché in esso mi pare si esprima bene la dimensione mariana del nostro ministero.
Anche noi, sacerdoti, consacrati, diaconi, siamo infatti chiamati a far sentire alla gente lo sguardo di Gesù e, nello stesso tempo, a portare a Gesù lo sguardo dei fratelli.
Uno scambio di sguardi.
Nel primo caso siamo strumenti di misericordia, nel secondo strumenti di intercessione.
Primo sguardo: quello di Gesù che accarezza l’uomo.
È uno sguardo che va dall’alto in basso, ma non per giudicare, bensì per rialzare chi è a terra.
È uno sguardo pieno di tenerezza, che traspare negli occhi di Maria.
E noi, chiamati a trasmettere questo sguardo, siamo tenuti ad abbassarci, a provare compassione – questa parola la sottolineo: compassione.
Non dimentichiamo che lo stile di Dio è quello della vicinanza, della compassione e della tenerezza – a fare nostra «la paziente ed incoraggiante benevolenza del Buon Pastore, che non rimprovera la pecora smarrita, ma la carica sulle spalle e fa festa per il suo ritorno all’ovile (cfr Lc 15,4-7)» (Congregazione per il Clero, Direttorio per il ministero e la vita dei presbiteri, 41).
A me piace pensare che il Signore non sa fare il gesto di puntare il dito per giudicare, ma sa fare quello di tendere la mano per risollevare.
Fratelli, sorelle, impariamo da questo sguardo, non lasciamo passare un giorno senza fare memoria di quando lo abbiamo ricevuto su di noi, e facciamolo nostro, per essere uomini e donne di compassione.
Vicinanza, compassione, tenerezza.
Non dimentichiamo.
Essere compassionevoli vuol dire essere vicini e teneri.
Apriamo le porte delle chiese e delle canoniche, ma soprattutto quelle del cuore, per mostrare attraverso la nostra mitezza, gentilezza e accoglienza il volto del nostro Signore.
Chiunque vi avvicini non trovi distanze e giudizi, trovi la testimonianza di un’umile gioia, più fruttuosa di ogni capacità ostentata.
Trovino i feriti della vita un porto sicuro, un’accoglienza, nel vostro sguardo, un incoraggiamento nel vostro abbraccio, una carezza nelle vostre mani, capaci di asciugare lacrime.
Pur nelle tante occupazioni di ogni giorno, non lasciate, per favore, che venga meno il calore dello sguardo paterno e materno di Dio.
E ai sacerdoti, per favore: nel Sacramento della Penitenza perdonate sempre, perdonate! Siate generosi come Dio è generoso con noi.
Perdonate! E con il perdono di Dio si aprono tante strade nella vita.
È questo è bello farlo dispensando il suo perdono con generosità, sempre, sempre, per sciogliere, attraverso la grazia, gli uomini dalle catene del peccato e liberarli da blocchi, rimorsi, rancori e paure contro cui da soli non possono prevalere.
È bello riscoprire con stupore, ad ogni età, la gioia di illuminare le vite, nei momenti lieti e tristi, con i Sacramenti, e di trasmettere, in nome di Dio, speranze inattese: la sua vicinanza che consola, la sua compassione che risana, la sua tenerezza che commuove.
Vicinanza, compassione, tenerezza.
Siate prossimi a tutti, specialmente ai più fragili e ai meno fortunati, e che non manchi mai a chi soffre la vostra vicinanza attenta e discreta.
Così cresceranno, in loro ma anche in voi, la fede che anima il presente, la speranza che apre al futuro e la carità che dura per sempre.
Ecco il primo movimento: portare ai fratelli lo sguardo di Gesù.
C’è una sola situazione nella vita in cui è lecito guardare una persona dall’alto in basso: è quando noi cerchiamo di prenderla per mano per sollevarla.
Nelle altre situazioni è un peccato di superbia.
Guardate le persone che stanno il basso e che con la mano – consciamente o inconsciamente – vi chiedono di sollevarle.
Prendetele per mano e sollevatele: è un gesto molto bello, è un gesto che non si può fare senza tenerezza.
E poi c’è il secondo sguardo: quello degli uomini e delle donne che si rivolgono a Gesù.
Come Maria, che a Cana ha colto e portato davanti al Signore le preoccupazioni di due giovani sposi (cfr Gv 2,3), anche voi siete chiamati a farvi, per gli altri - uomini e donne per gli altri -, voce che intercede (cfr Rm 8,34).
Allora la recita del Breviario, la meditazione quotidiana della Parola, il Rosario e ogni altra preghiera, vi raccomando specialmente quella di adorazione.
Noi abbiamo perso un po’ il senso dell’adorazione, dobbiamo riprenderlo, vi raccomando questo.
Tutte queste preghiere saranno affollate dai volti di quanti la Provvidenza vi mette sul cammino.
Porterete con voi i loro occhi, le loro voci, le loro domande: sulla Mensa eucaristica, davanti al Tabernacolo o nel silenzio della vostra stanza, dove il Padre vede (cfr Mt 6,6).
Vi farete loro eco fedele, come intercessori, come “angeli in terra”, messaggeri che portano tutto «davanti alla gloria del Signore» (Tb 12,12).
E vorrei riassumere questa breve meditazione richiamando la vostra attenzione su tre immagini di Maria che si venerano in questa Basilica.
La prima è la grande immagine che svetta sulla sua cima, che la rappresenta mentre regge il Bambino Gesù benedicente: ecco, come Maria portiamo la benedizione e la pace di Gesù ovunque, in ogni famiglia e in ogni cuore.
Seminate pace! È lo sguardo di misericordia.
La seconda immagine si trova sotto di noi, nella Cripta: è la Vierge au bouquet, dono di un laico generoso.
Anch’ella porta su un braccio il Bambino Gesù, e ce lo mostra, ma nell’altra mano, al posto dello scettro, regge un mazzo di fiori.
Ci fa pensare a come Maria, modello della Chiesa, mentre ci presenta il suo Figlio, presenta anche noi a Lui, come un mazzo di fiori in cui ciascuna persona è unica, è bella e preziosa agli occhi del Padre.
È lo sguardo di intercessione.
Questo è molto importante: l’intercessione.
Il primo era lo sguardo di misericordia della Madonna, questo è lo sguardo di intercessione.
Infine, la terza immagine è quella che vediamo qui al centro, sull’altare, che colpisce per lo splendore che irradia.
Anche noi, cari fratelli e sorelle, diventiamo Vangelo vivo nella misura in cui lo doniamo, uscendo da noi stessi, riflettendone la luce e la bellezza con una vita umile, gioiosa, ricca di zelo apostolico.
Ci siano di stimolo in questo i tanti missionari partiti da questo alto luogo per annunciare la buona novella di Gesù Cristo nel mondo intero.
Carissimi, portiamo ai fratelli lo sguardo di Dio, portiamo a Dio la sete dei fratelli, diffondiamo la gioia del Vangelo.
Questa è la nostra vita ed è incredibilmente bella, nonostante le fatiche e le cadute, anche i nostri peccati.
Preghiamo insieme la Madonna, che ci accompagni, che ci custodisca.
E voi, per favore, pregate per me.
In quel tempo, poiché una gran folla si radunava e accorreva a lui gente da ogni città, Gesù disse con una parabola: «Il seminatore uscì a seminare la sua semente.
Mentre seminava, parte cadde lungo la strada e fu calpestata, e gli uccelli del cielo la divorarono. Un'altra parte cadde sulla pietra e appena germogliata inaridì per mancanza di umidità. Un'altra cadde in mezzo alle spine e le spine, cresciute insieme con essa, la soffocarono. Un'altra cadde sulla terra buona, germogliò e fruttò cento volte tanto».
Detto questo, esclamò: «Chi ha orecchi per intendere, intenda!». I suoi discepoli lo interrogarono sul significato della parabola. Ed egli disse: «A voi è dato conoscere i misteri del regno di Dio, ma agli altri solo in parabole, perchè vedendo non vedano e udendo non intendano. Il significato della parabola è questo: Il seme è la parola di Dio. I semi caduti lungo la strada sono coloro che l'hanno ascoltata, ma poi viene il diavolo e porta via la parola dai loro cuori, perché non credano e così siano salvati. Quelli sulla pietra sono coloro che, quando ascoltano, accolgono con gioia la parola, ma non hanno radice; credono per un certo tempo, ma nell'ora della tentazione vengono meno. Il seme caduto in mezzo alle spine sono coloro che, dopo aver ascoltato, strada facendo si lasciano sopraffare dalle preoccupazioni, dalla ricchezza e dai piaceri della vita e non giungono a maturazione. Il seme caduto sulla terra buona sono coloro che, dopo aver ascoltato la parola con cuore buono e perfetto, la custodiscono e producono frutto con la loro perseveranza».
Ma Gesù, saputolo, si allontanò di là.
Molti lo seguirono ed egli guarì tutti, ordinando loro di non divulgarlo, perché si adempisse ciò che era stato detto dal profeta Isaia: Ecco il mio servo che io ho scelto; il mio prediletto, nel quale mi sono compiaciuto.
Porrò il mio spirito sopra di lui e annunzierà la giustizia alle genti. Non contenderà, né griderà, né si udrà sulle piazze la sua voce. La canna infranta non spezzerà, non spegnerà il lucignolo fumigante, finché abbia fatto trionfare la giustizia; nel suo nome spereranno le genti. In quel tempo gli fu portato un indemoniato, cieco e muto, ed egli lo guarì, sicché il muto parlava e vedeva. E tutta la folla era sbalordita e diceva: «Non è forse costui il figlio di Davide?». Ma i farisei, udendo questo, presero a dire: «Costui scaccia i demòni in nome di Beelzebùl, principe dei demòni». Ma egli, conosciuto il loro pensiero, disse loro: «Ogni regno discorde cade in rovina e nessuna città o famiglia discorde può reggersi. Ora, se satana scaccia satana, egli è discorde con se stesso; come potrà dunque reggersi il suo regno? E se io scaccio i demòni in nome di Beelzebùl, i vostri figli in nome di chi li scacciano? Per questo loro stessi saranno i vostri giudici. Ma se io scaccio i demòni per virtù dello Spirito di Dio, è certo giunto fra voi il regno di Dio.
Signor Presidente della Repubblica,
cari fratelli Vescovi,
illustri Sindaci e Autorità che rappresentate città e territori bagnati dal Mar Mediterraneo,
amiche e amici tutti!
Vi saluto cordialmente, grato a ciascuno di voi per aver accolto l’invito del Cardinal Aveline a partecipare a questi incontri.
Grazie per il vostro lavoro e per le preziose riflessioni che avete condiviso.
Dopo Bari e Firenze, il cammino al servizio dei popoli mediterranei progredisce: anche qui, responsabili ecclesiastici e civili sono insieme non per trattare reciproci interessi, ma animati dal desiderio di prendersi cura dell’uomo; grazie perché lo fate con i giovani, presente e futuro della Chiesa e della società.
La città di Marsiglia è molto antica.
Fondata da navigatori greci venuti dall’Asia Minore, il mito la fa risalire alla storia d’amore tra un marinaio emigrato e una principessa nativa.
Fin dalle origini essa presenta un carattere composito e cosmopolita: accoglie le ricchezze del mare e dona una patria a chi non l’ha più.
Marsiglia ci dice che, nonostante le difficoltà, la convivialità è possibile ed è fonte di gioia.
Sulla carta geografica, tra Nizza e Montpellier, sembra quasi disegnare un sorriso; e mi piace pensarla così: Marsiglia è “il sorriso del Mediterraneo”.
Vorrei dunque proporvi alcuni pensieri attorno a tre realtà che caratterizzano Marsiglia: il mare, il porto e il faro.
Sono tre simboli.
1. Il mare.
Una marea di popoli ha fatto di questa città un mosaico di speranza, con la sua grande tradizione multietnica e multiculturale, rappresentata dai più di 60 Consolati presenti sul suo territorio.
Marsiglia è città al tempo stesso plurale e singolare, in quanto è la sua pluralità, frutto di incontro con il mondo, a renderne singolare la storia.
Spesso oggi si sente ripetere che la storia mediterranea sarebbe un intreccio di conflitti tra civiltà, religioni e visioni differenti.
Non ignoriamo i problemi – ce ne sono! –, ma non lasciamoci ingannare: gli scambi intercorsi tra i popoli hanno reso il Mediterraneo culla di civiltà, mare straripante di tesori, al punto che, come scrisse un grande storico francese, esso non è «un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi.
Non un mare, ma una successione di mari»; «da millenni tutto vi confluisce, complicandone e arricchendone la storia» (F.
Braudel, La Méditerranée, Paris 1985, 16).
Il mare nostrum è spazio di incontro: tra le religioni abramitiche; tra il pensiero greco, latino e arabo; tra la scienza, la filosofia e il diritto, e tra molte altre realtà.
Ha veicolato nel mondo l’alto valore dell’essere umano, dotato di libertà, aperto alla verità e bisognoso di salvezza, che vede il mondo come una meraviglia da scoprire e un giardino da abitare, nel segno di un Dio che stringe alleanze con gli uomini.
Un grande sindaco leggeva nel Mediterraneo non una questione conflittuale, ma una risposta di pace, anzi «l’inizio e il fondamento della pace fra tutte le nazioni del mondo» (G.
La Pira, Parole a conclusione del primo Colloquio Mediterraneo, 6 ottobre 1958).
Disse infatti: «La risposta […] è possibile se si considera la comune vocazione storica e per così dire permanente che la Provvidenza ha assegnato nel passato, assegna nel presente e, in un certo senso, assegnerà nell’avvenire ai popoli e alle nazioni che vivono sulle rive di questo misterioso lago di Tiberiade allargato che è il Mediterraneo» (Discorso di apertura del I Colloquio Mediterraneo, 3 ottobre 1958).
Lago di Tiberiade, ovvero Mare di Galilea, un luogo cioè nel quale, ai tempi di Cristo, si concentrava una grande varietà di popolazioni, culti e tradizioni.
Proprio lì, nella «Galilea delle genti» (cfr Mt 4,15) attraversata dalla Via del mare, si svolse la maggior parte della vita pubblica di Gesù.
Un contesto multiforme e per molti versi instabile fu la sede dell’annuncio universale delle Beatitudini, nel nome di un Dio Padre di tutti, che «fa sorgere il suo sole sui cattivi e sui buoni, e fa piovere sui giusti e sugli ingiusti» (Mt 5,45).
Era anche l’invito ad allargare le frontiere del cuore, superando barriere etniche e culturali.
Ecco allora la risposta che viene dal Mediterraneo: questo perenne mare di Galilea invita a opporre alla divisività dei conflitti la «convivialità delle differenze» (T.
Bello, Benedette inquietudini, Milano 2001, 73).
Il mare nostrum, al crocevia tra Nord e Sud, tra Est e Ovest, concentra le sfide del mondo intero, come testimoniano le sue “cinque rive”, su cui avete riflettuto: Nord Africa, vicino Oriente, Mar Nero-Egeo, Balcani ed Europa latina.
È avamposto di sfide che riguardano tutti: pensiamo a quella climatica, con il Mediterraneo che rappresenta un hotspot dove i cambiamenti si avvertono più rapidamente; quanto è importante custodire la macchia mediterranea, scrigno di biodiversità! Insomma, questo mare, ambiente che offre un approccio unico alla complessità, è “specchio del mondo” e porta in sé una vocazione globale alla fraternità, vocazione unica e unica via per prevenire e superare le conflittualità.
Fratelli e sorelle, nell’odierno mare dei conflitti, siamo qui per valorizzare il contributo del Mediterraneo, perché torni a essere laboratorio di pace.
Perché questa è la vocazione, essere luogo dove Paesi e realtà diverse si incontrino sulla base dell’umanità che tutti condividiamo, non delle ideologie che contrappongono.
Sì, il Mediterraneo esprime un pensiero non uniforme e ideologico, ma poliedrico e aderente alla realtà; un pensiero vitale, aperto e conciliante: un pensiero comunitario, questa è la parola.
Quanto ne abbiamo bisogno nel frangente attuale, dove nazionalismi antiquati e belligeranti vogliono far tramontare il sogno della comunità delle nazioni! Ma – ricordiamolo – con le armi si fa la guerra, non la pace, e con l’avidità di potere sempre si torna al passato, non si costruisce il futuro.
Da dove dunque iniziare per radicare la pace? Sulle rive del Mare di Galilea Gesù cominciò col dare speranza ai poveri, proclamandoli beati: ne ascoltò i bisogni, ne sanò le ferite, proclamò anzitutto a loro il buon annuncio del Regno.
Da lì occorre ripartire, dal grido spesso silenzioso degli ultimi, non dai primi della classe che, pur stando bene, alzano la voce.
Ripartiamo, Chiesa e comunità civile, dall’ascolto dei poveri, che «si abbracciano, non si contano» (P.
Mazzolari, La parola ai poveri, Bologna 2016, 39), perché sono volti, non numeri.
Il cambio di passo delle nostre comunità sta nel trattarli come fratelli di cui conoscere le storie, non come problemi fastidiosi, cacciandoli via, mandandoli a casa; sta nell’accoglierli, non nel nasconderli; nell’integrarli, non nello sgomberarli; nel dar loro dignità.
E Marsiglia, voglio ripeterlo, è la capitale dell’integrazione dei popoli.
Questo è un orgoglio vostro! Oggi il mare della convivenza umana è inquinato dalla precarietà, che ferisce pure la splendida Marsiglia.
E dove c’è precarietà c’è criminalità: dove c’è povertà materiale, educativa, lavorativa, culturale e religiosa, il terreno delle mafie e dei traffici illeciti è spianato.
L’impegno delle sole istituzioni non basta, serve un sussulto di coscienza per dire “no” all’illegalità e “sì” alla solidarietà, che non è una goccia nel mare, ma l’elemento indispensabile per purificarne le acque.
In effetti, il vero male sociale non è tanto la crescita dei problemi, ma la decrescita della cura.
Chi oggi si fa prossimo dei giovani lasciati a sé stessi, facili prede della criminalità e della prostituzione? Chi se ne prende carico? Chi è vicino alle persone schiavizzate da un lavoro che dovrebbe renderle più libere? Chi si prende cura delle famiglie impaurite, timorose del futuro e di mettere al mondo nuove creature? Chi presta ascolto al gemito degli anziani soli che, anziché esser valorizzati, vengono parcheggiati, con la prospettiva falsamente dignitosa di una morte dolce, in realtà più salata delle acque del mare? Chi pensa ai bambini non nati, rifiutati in nome di un falso diritto al progresso, che è invece regresso nei bisogni dell’individuo? Oggi abbiamo il dramma di confondere i bambini con i cagnolini.
Il mio segretario mi diceva che, passando per Piazza San Pietro, aveva visto qualche donna che portava i bambini nella carrozzina… ma non erano bambini, erano cagnolini! Questa confusione ci dice qualcosa di brutto.
Chi guarda con compassione oltre la propria riva per ascoltare le grida di dolore che si levano dal Nord Africa e dal Medio Oriente? Quanta gente vive immersa nelle violenze e patisce situazioni di ingiustizia e di persecuzione! E penso a tanti cristiani, spesso costretti a lasciare le loro terre oppure ad abitarle senza veder riconosciuti i loro diritti, senza godere di piena cittadinanza.
Per favore, impegniamoci perché quanti fanno parte della società possano diventarne cittadini a pieno diritto.
E poi c’è un grido di dolore che più di tutti risuona, e che sta tramutando il mare nostrum in mare mortuum, il Mediterraneo da culla della civiltà a tomba della dignità.
È il grido soffocato dei fratelli e delle sorelle migranti, a cui vorrei dedicare attenzione riflettendo sulla seconda immagine che ci offre Marsiglia, quella del suo porto.
2.
Il porto di Marsiglia è da secoli una porta spalancata sul mare, sulla Francia e sull’Europa.
Da qui molti sono partiti per trovare lavoro e futuro all’estero, e da qui tanti hanno varcato la porta del continente con bagagli carichi di speranza.
Marsiglia ha un grande porto ed è una grande porta, che non può essere chiusa.
Vari porti mediterranei, invece, si sono chiusi.
E due parole sono risuonate, alimentando le paure della gente: “invasione” ed “emergenza”.
E si chiudono i porti.
Ma chi rischia la vita in mare non invade, cerca accoglienza, cerca vita.
Quanto all’emergenza, il fenomeno migratorio non è tanto un’urgenza momentanea, sempre buona per far divampare propagande allarmiste, ma un dato di fatto dei nostri tempi, un processo che coinvolge attorno al Mediterraneo tre continenti e che va governato con sapiente lungimiranza: con una responsabilità europea in grado di fronteggiare le obiettive difficoltà.
Sto guardando, qui, in questa mappa, i porti privilegiati per i migranti: Cipro, la Grecia, Malta, Italia e Spagna… Sono affacciati sul Mediterraneo e ricevono i migranti.
Il mare nostrum grida giustizia, con le sue sponde che da un lato trasudano opulenza, consumismo e spreco, mentre dall’altro vi sono povertà e precarietà.
Anche qui il Mediterraneo rispecchia il mondo, con il Sud che si volge al Nord, con tanti Paesi in via di sviluppo, afflitti da instabilità, regimi, guerre e desertificazione, che guardano a quelli benestanti, in un mondo globalizzato nel quale tutti siamo connessi ma i divari non sono mai stati così profondi.
Eppure, questa situazione non è una novità degli ultimi anni, e non è questo Papa venuto dall’altra parte del mondo il primo ad avvertirla con urgenza e preoccupazione.
La Chiesa ne parla con toni accorati da più di cinquant’anni.
Si era da poco concluso il Concilio Vaticano II e San Paolo VI, nell’Enciclica Populorum progressio, scrisse: «I popoli della fame interpellano oggi in maniera drammatica i popoli dell’opulenza.
La chiesa trasale davanti a questo grido d’angoscia e chiama ognuno a rispondere con amore al proprio fratello» (n.
3).
Papa Montini enumerò “tre doveri” delle nazioni più sviluppate, «radicati nella fraternità umana e soprannaturale»: «dovere di solidarietà, cioè l’aiuto che le nazioni ricche devono prestare ai Paesi in via di sviluppo; dovere di giustizia sociale, cioè il ricomponimento in termini più corretti delle relazioni commerciali difettose tra popoli forti e popoli deboli; dovere di carità universale, cioè la promozione di un mondo più umano per tutti, un mondo nel quale tutti abbiano qualcosa da dare e da ricevere, senza che il progresso degli uni costituisca un ostacolo allo sviluppo degli altri» (n.
44).
Alla luce del Vangelo e di queste considerazioni, Paolo VI, nel 1967, sottolineò il «dovere dell’accoglienza», sul quale, scrisse, «non insisteremo mai abbastanza» (n.
67).
A questo, quindici anni prima, aveva incoraggiato Pio XII, scrivendo che «la Famiglia di Nazaret in esilio, Gesù, Maria e Giuseppe emigranti in Egitto […] sono il modello, l’esempio ed il sostegno di tutti gli emigranti e pellegrini di ogni età e di ogni paese, di tutti i profughi di qualsiasi condizione che, incalzati dalla persecuzione o dal bisogno, si vedono costretti ad abbandonare la patria, i cari parenti, […] e a recarsi in terra straniera» (Cost.
Ap.
Exsul Familia de spirituali emigrantium cura, 1° agosto 1952).
Certo, sono sotto gli occhi di tutti le difficoltà nell’accogliere. I migranti vanno accolti, protetti o accompagnati, promossi e integrati.
Se non si arriva fino alla fine, il migrante finisce nell’orbita della società.
Accolto, accompagnato, promosso e integrato: questo è lo stile.
È vero che non è facile avere questo stile o integrare persone non attese, però il criterio principale non può essere il mantenimento del proprio benessere, bensì la salvaguardia della dignità umana.
Coloro che si rifugiano da noi non vanno visti come un peso da portare: se li consideriamo fratelli, ci appariranno soprattutto come doni.
Domani si celebrerà la Giornata Mondiale del Migrante e del Rifugiato.
Lasciamoci toccare dalla storia di tanti nostri fratelli e sorelle in difficoltà, che hanno il diritto sia di emigrare sia di non emigrare, e non chiudiamoci nell’indifferenza.
La storia ci interpella a un sussulto di coscienza per prevenire il naufragio di civiltà.
Il futuro, infatti, non sarà nella chiusura, che è un ritorno al passato, un’inversione di marcia nel cammino della storia.
Contro la terribile piaga dello sfruttamento di esseri umani, la soluzione non è respingere, ma assicurare, secondo le possibilità di ciascuno, un ampio numero di ingressi legali e regolari, sostenibili grazie a un’accoglienza equa da parte del continente europeo, nel contesto di una collaborazione con i Paesi d’origine.
Dire “basta”, invece, è chiudere gli occhi; tentare ora di “salvare sé stessi” si tramuterà in tragedia domani, quando le future generazioni ci ringrazieranno se avremo saputo creare le condizioni per un’imprescindibile integrazione, mentre ci incolperanno se avremo favorito soltanto sterili assimilazioni.
L’integrazione, anche dei migranti, è faticosa, ma lungimirante: prepara il futuro che, volenti o nolenti, sarà insieme o non sarà; l’assimilazione, che non tiene conto delle differenze e resta rigida nei propri paradigmi, fa invece prevalere l’idea sulla realtà e compromette l’avvenire, aumentando le distanze e provocando la ghettizzazione, che fa divampare ostilità e insofferenze.
Abbiamo bisogno di fraternità come del pane.
La stessa parola “fratello”, nella sua derivazione indoeuropea, rivela una radice legata alla nutrizione e al sostentamento.
Sosterremo noi stessi solo nutrendo di speranza i più deboli, accogliendoli come fratelli.
«Non dimenticate l’ospitalità» (Eb 13,2), ci dice la Scrittura.
E nell’Antico Testamento si ripete: la vedova, l’orfano e lo straniero.
I tre doveri della carità: assistere la vedova, assistere l’orfano e assistere lo straniero, il migrante.
A tale proposito, il porto di Marsiglia è anche una “porta di fede”.
Secondo la tradizione, qui approdarono i Santi Marta, Maria e Lazzaro, che seminarono il Vangelo in queste terre.
La fede viene dal mare, come rievoca la suggestiva tradizione marsigliese della Candelora con la processione marittima.
Lazzaro, nel Vangelo, è l’amico di Gesù, ma è anche il nome del protagonista di una sua parabola attualissima, la quale apre gli occhi sulla disuguaglianza che corrode la fraternità e ci parla della predilezione del Signore per i poveri.
Ebbene, noi cristiani, che crediamo nel Dio fatto uomo, nell’unico e inimitabile Uomo che sulle rive del Mediterraneo si è detto via, verità e vita (cfr Gv 14,6), non possiamo accettare che le vie dell’incontro siano chiuse.
Non chiudiamo le vie dell’incontro, per favore! Non possiamo accettare che la verità del dio denaro prevalga sulla dignità dell’uomo, che la vita si tramuti in morte! La Chiesa, confessando che Dio in Gesù Cristo «si è unito in certo modo ad ogni uomo» (Gaudium et spes, 22), crede, con San Giovanni Paolo II, che la sua via è l’uomo (cfr Lett.
enc.
Redemptor hominis, 14).
Adora Dio e serve i più fragili, che sono i suoi tesori.
Adorare Dio e servire il prossimo, ecco cosa conta: non la rilevanza sociale o la consistenza numerica, ma la fedeltà al Signore e all’uomo!
Questa è la testimonianza cristiana, e tante volte è pure eroica; penso ad esempio a San Charles de Foucauld, “fratello universale”, ai martiri dell’Algeria, ma anche a tanti operatori di carità di oggi.
In questo stile di vita scandalosamente evangelico, la Chiesa ritrova il porto sicuro a cui attraccare e da cui ripartire per intessere legami con la gente di ogni popolo, ricercando ovunque le tracce dello Spirito e offrendo quanto per grazia ha ricevuto.
Ecco la realtà più pura della Chiesa, ecco – scrisse Bernanos – «la Chiesa dei santi», aggiungendo che «tutto questo grande apparato di saggezza, di forza, di disciplina elastica, di magnificenza e di maestà, non è nulla di per sé, se la carità non lo anima» (Jeanne relapse et sainte, Paris 1994, 74).
Mi piace esaltare questa perspicacia francese, genio credente e creativo, che ha affermato tali verità attraverso una moltitudine di gesti e scritti.
San Cesareo di Arles diceva: «Se hai la carità, hai Dio; e se hai Dio, che cosa ti manca?» (Sermo 22,2).
Pascal riconosceva che «l’unico oggetto della Scrittura è la carità» (Pensieri, n.
301) e che «la verità fuori della carità non è Dio, ma è la sua immagine e un idolo che non bisogna amare, né adorare» (Pensieri, n.
767).
E San Giovanni Cassiano, che qui morì, scrisse che «tutto, anche ciò che si stima utile e necessario, val meno di quel bene che è la pace e la carità» (Conferenze spirituali XVI,6).
È bello dunque che i cristiani non siano secondi a nessuno nella carità; e che il Vangelo della carità sia la magna charta della pastorale.
Non siamo chiamati a rimpiangere i tempi passati o a ridefinire una rilevanza ecclesiale, siamo chiamati alla testimonianza: non a ricamare il Vangelo di parole, ma a dargli carne; non a misurare la visibilità, ma a spenderci nella gratuità, credendo che «la misura di Gesù è l’amore senza misura» (Omelia, 23 febbraio 2020).
San Paolo, l’Apostolo delle genti che trascorse buona parte della vita sulle rotte mediterranee, da un porto all’altro, insegnava che per adempiere la legge di Cristo occorre portare gli uni i pesi degli altri (cfr Gal 6,2).
Cari fratelli Vescovi, non carichiamo di pesi le persone, ma alleviamo le loro fatiche in nome del Vangelo della misericordia, per distribuire con gioia il sollievo di Gesù a un’umanità stanca e ferita.
La Chiesa non sia un insieme di prescrizioni, la Chiesa sia porto di speranza per gli sfiduciati.
Allargate il cuore, per favore! La Chiesa sia porto di ristoro, dove le persone si sentano incoraggiate a prendere il largo nella vita con la forza impareggiabile della gioia di Cristo.
La Chiesa non sia dogana.
Ricordiamo il Signore: tutti, tutti, tutti sono invitati.
3.
E vengo brevemente così all’ultima immagine, quella del faro.
Esso illumina il mare e fa vedere il porto.
Quali scie luminose possono orientare la rotta delle Chiese nel Mediterraneo? Pensando al mare, che unisce tante comunità credenti diverse, credo si possa riflettere su percorsi più sinergici, forse valutando anche l’opportunità di una Conferenza ecclesiale del Mediterraneo, come ha detto il Cardinale [Aveline].
che permetta ulteriori possibilità di scambio e dia maggiore rappresentatività ecclesiale alla regione.
Anche pensando al porto e al tema migratorio, potrebbe essere proficuo lavorare per una pastorale specifica ancora più collegata, così che le Diocesi più esposte possano assicurare migliore assistenza spirituale e umana alle sorelle e ai fratelli che giungono bisognosi.
Il faro, in questo prestigioso palazzo che ne porta il nome, mi fa infine pensare soprattutto ai giovani: sono loro la luce che indica la rotta futura.
Marsiglia è una grande città universitaria, sede di quattro campus; dei circa 35.000 studenti che li frequentano, 5.000 sono stranieri.
Da dove cominciare a tessere i rapporti tra le culture, se non dall’università? Lì i giovani non sono ammaliati dalle seduzioni del potere, ma dal sogno di costruire l’avvenire.
Le università mediterranee siano laboratori di sogni e cantieri di futuro, dove i giovani maturino incontrandosi, conoscendosi e scoprendo culture e contesti vicini e diversi al tempo stesso.
Così si abbattono i pregiudizi, si sanano le ferite e si scongiurano retoriche fondamentaliste.
State attenti alla predica di tanti fondamentalismi che oggi sono alla moda! Giovani ben formati e orientati a fraternizzare potranno aprire porte insperate di dialogo.
Se vogliamo che si dedichino al Vangelo e all’alto servizio della politica, occorre prima di tutto che noi siamo credibili: dimentichi di noi stessi, liberi da autoreferenzialità, dediti a spenderci senza sosta per gli altri.
Ma la sfida prioritaria dell’educazione riguarda ogni età formativa: già da bambini, “mischiandosi” con gli altri, si possono superare tante barriere e preconcetti, sviluppando la propria identità nel contesto di un mutuo arricchimento.
A ciò può ben contribuire la Chiesa, mettendo al servizio le sue reti formative e animando una “creatività della fraternità”.
Fratelli e sorelle, la sfida è anche quella di una teologia mediterranea – la teologia dev’essere radicata nella vita; una teologia da laboratorio non funziona –, che sviluppi un pensiero aderente al reale, “casa” dell’umano e non solo del dato tecnico, in grado di unire le generazioni legando memoria e futuro, e di promuovere con originalità il cammino ecumenico tra i cristiani e il dialogo tra credenti di religioni diverse.
È bello avventurarsi in una ricerca filosofica e teologica che, attingendo alle fonti culturali mediterranee, restituisca speranza all’uomo, mistero di libertà bisognoso di Dio e dell’altro per dare senso alla propria esistenza.
Ed è necessario pure riflettere sul mistero di Dio, che nessuno può pretendere di possedere o padroneggiare, e che anzi va sottratto ad ogni utilizzo violento e strumentale, consci che la confessione della sua grandezza presuppone in noi l’umiltà dei cercatori.
Cari fratelli e sorelle, sono contento di essere qui a Marsiglia! Una volta il Signor Presidente mi ha invitato a visitare la Francia e mi ha detto così: “Ma è importante che venga a Marsiglia!”.
E l’ho fatto.
Vi ringrazio per il vostro paziente ascolto e per il vostro impegno.
Andate avanti, coraggiosi! Siate mare di bene, per far fronte alle povertà di oggi con una sinergia solidale; siate porto accogliente, per abbracciare chi cerca un futuro migliore; siate faro di pace, per fendere, attraverso la cultura dell’incontro, gli abissi tenebrosi della violenza e della guerra.
Grazie tante!
La coroncina: un Padre, una Ave, un Credo. Poi per cinque volte: